La storia

Tutto ebbe inizio in Scozia addirittura all’inizio del secolo scorso, quando con motociclette stradali alcuni arditi provavano a risalire le colline fuoristrada. C’era chi riusciva bene e chi “annaspava” utilizzando le proprie gambe per dare le spinte necessarie ad arrivare all’obiettivo prefissato. A qualcuno venne l’idea di premiare l’eleganza di chi, spostando adeguatamente il proprio peso, spesso guidando in piedi sulle pedane, non avesse dovuto aiutarsi con i piedi a terra. Una gara di abilità piuttosto che di velocità. Piano piano, vista l’impossibilità di controllare il procedere dei concorrenti su percorsi molto lunghi, qualcuno decise di dividere il giro in zone e trasferimento. Dotare le prime di Marschalls (giudici) che annotassero i “piedi a terra” dei vari piloti, fu il passo successivo. I primi regolamenti erano dei veri rebus. In Italia se ne applicò uno, ad inizio anni 70, che prevedeva punteggi complicatissimi. L’attuale, pur con qualche riserva sul penalizzare o no l’arresto del pilota in equilibrio sulle pedane, è quello più usato nel mondo.

Il primo vero boom del Trial avvenne in Inghilterra negli anni 60. Sport dei motori non pericoloso, molta natura, moto di facile manutenzione. Le zone erano quelle in cui il fango faceva da padrone. Rigagnoli da attraversare e giri intorno ad alberi dove col passare delle moto fuoriuscivano insidiose e scivolose radici. I mezzi erano principalmente monocilindrici 4 tempi di produzione locale, con cilindrate che svariavano dai 200cc della Triumph Tiger Cup ai 500cc dell’Ariel del mitico Sammy Miller.

Non erano in produzione. Prendevano il modello di serie, nato per un uso stradale e provvedevano a cambiare le marmitta per farla passare in alto, onde aumentare la luce fra motore e terreno. Quindi parafanghi staccati dalle ruote, stile motocross e gomme da fuoristrada.

Accadde più tardi che un imprenditore spagnolo, Ignacio Bultò, s’innamorò di questa strana specialità ed ingaggiò il campione dell’epoca Sammy Miller per sviluppare una moto 2 tempi. dando inizio ad una nuova era, quella delle due tempi spagnole. Quella moto come avrete intuito dal nome, era la Bultaco, che insieme a Montesa ed Ossa, negli anni ’70. contribuì a spingere il Trial verso la sua epoca dell’oro.

Queste moto erano più esili e più leggere dei 4 tempi inglesi. Dotate di una grande coppia, si guidava sempre utilizzando molto i bassi regimi, la frizione non veniva mai usata. Motori di 250 e 350 cc con le prime tre marce cortissime, un volano molto grande e pesante, per garantire inerzia sufficiente ad evitare lo spegnimento del motore al culmine di una salita o in altre situazioni rischiose. L’input era avere ampia possibilità di movimento nella zona sella serbatoio, in modo che il trialista potesse spostarsi e dare l’aderenza giusta al suo mezzo. Era anche necessario mantenere il baricentro basso, senza rinunciare ad una luce abbastanza ampia per evitare che il motore (dotato di piastra di riparo) toccasse gli ostacoli. Insomma se si guidava da seduti si avevano le ginocchia quasi in bocca. Ma la diversità dal resto del mondo delle moto era appena incominciata.

Portato a latitudini dove il terreno era più asciutto e con l’aiuto di mezzi più performanti, si assistette ad un crescere progressivo delle difficoltà da superare. Si trovarono ostacoli artificiali da portare nelle arene, come il maggiolino Volkswagen o il pulmino Fiat 238.

Venne il momento delle industrie italiane. Dalla Fantic, alla SWM, o la Garelli e l’Italjet.

La tecnica visse un’altra evoluzione significante. Si iniziò ad usare la frizione e le sospensioni ebbero un ruolo di sempre maggiore importanza. Dovevano essere più reattive, perchè la guida diventò più nervosa, con scatti di frizione e compressioni e rilasci repentini di forcelle ed ammortizzatori. Dal semplice surplace si passò a veri spostamenti della moto, sempre in piedi sulle pedane, quindi a forza di braccia e gambe: virtuosismi riservati a sempre meno praticanti. Il mono-ammortizzatore ed il raffreddamento a liquido rappresentò un altro passo vitale. Ormai le selle furono abolite. Ci fu una corsa per limitare il peso, per fare in modo che il “giocattolo” potesse essere facilmente pilotato per salire l’impossibile. Oggi i migliori piloti al mondo danzano sulla ruota posteriore come se fossero in bicicletta. Si lanciano su muri verticali, sfruttando sì la potenza del motore, ma soprattutto la loro capacità di usare le sospensioni.